Jennifer Ingleheart, A Commentary on Ovid Tristia Book 2. Oxford Classical Monographs. Oxford: Oxford University Press, 2010. Pp. 464. ISBN 978-0-19- 959042-1. UK£80.00.
Beatrice Larosa,
Università della Calabria, Arcavacata di
Rende (CS), Italy
Pubblicato nel 2010 nella serie Oxford Classical Monographs, che, tra i lavori dedicati alla poesia ovidiana dell’esilio, annovera già il commento di Gaertner al I libro delle Epistulae ex Ponto, il volume della Ingleheart[[1]], dedicato all’analisi linguistico-filologica di Tristia II, si segnala da subito per la completa esposizione del testo latino, sorretta da un’accurata impostazione metodologica e dall’uso di una ricca e aggiornata bibliografia.
A sette anni dall’uscita del commento italiano di Tristia II, curato dalla Ciccarelli[[2]], questo lavoro rappresenta il più recente studio inglese dell’elegia a partire da quello di Owen del 1924: l’analisi spazia dal livello lessicale, metrico, stilistico e tematico, alla discussione delle varianti notevoli, con una particolare attenzione alla componente intertestuale, luogo privilegiato dove meglio si evince la densità espressiva tipica dello stile ovidiano.
Il libro si compone di tre parti principali (introduzione, testo latino e traduzione, commento); lo spazio maggiore è dedicato al commento.
L’Introduzione (pp. 1-29), semplice e concisa nella sua divisione in otto sezioni, definisce il background compositivo dell’elegia, fondamentale nell’approccio interpretativo, fornendo informazioni essenziali sui crimina ovidiani (carmen ed error), sulla possibile cronologia del componimento, sul posto che esso occupa tra le opere dell’esilio, sulle connessioni con la letteratura precedente, sull’influsso del contesto storico e politico, sulla controversa interpretazione del brano, i cui toni, caratterizzati dall’avvicendarsi di polemica e di adulazione, sembrano glissare dalla sincerità all’ironia (pp. 26-7). La sezione più lunga è quella intitolata Models (pp. 7-21), dove l’autrice passa in rassegna i possibili testi sottesi alla composizione di Tristia II (l’epistola 2, 1 e l’epodo 17 di Orazio; la Pro Ligario di Cicerone; l’eroide 12), con i quali precisa, rispetto all’elegia, gli elementi di affinità e divergenza; particolarmente importanti ai fini esegetici sono le argomentazioni sulla struttura retorica del componimento (pp. 15-21), che ampliano quelle precedentemente avanzate da Owen[[3]] e sono utili anche per il quadro generale dei rimandi, non solo alla bibliografia di riferimento[[4]], ma anche alla tradizione della retorica classica, con citazioni desunte dalla Rhetorica ad Herennium, da Cicerone (De inventione, De oratore, Pro Ligario, Brutus) e dall’Institutio oratoria di Quintiliano. Tristia II, l’unico tra i componimenti dell’esilio in cui Ovidio si rivolge direttamente al princeps, con l’intento di ottenere, tramite la giustificazione della sua attività poetica, una mitigazione della propria condanna, si configura come un’apologia, caratterizzata dalle parti canoniche dell’orazione: l’exordium (vv. 1-26), la propositio (vv. 27- 8), la tractatio (vv. 29-578), divisibile nelle due sezioni della probatio (vv. 29-206) e della refutatio (vv. 207-578), entrambe concluse da una peroratio (vv. 155- 206; vv. 573-78).
Le pagine 32-59 del volume riportano il testo latino e la traduzione a fronte. L’edizione critica di riferimento è quella di Hall[[5]], ma l’autrice non segue sempre fedelmente il testo proposto, riservandosi di discutere i passaggi controversi, e le eventuali proposte di emendamento, in sede di commento. In effetti, nella scelta del testo latino hanno influito anche le edizioni di Owen[[6]] e di Luck[[7]] e la presenza di una nota critica oppure di un succinto apparato si sarebbero rivelati utili per facilitare da subito l’individuazione dei luoghi corrotti e delle differenti scelte testuali operate. La traduzione è in versi ed offre un valido ausilio poicheé ha il pregio di mantenersi quanto più possibile aderente al testo di partenza, del quale tenta anche di riprodurre le movenze stilistiche.
Il commento costituisce il fulcro del lavoro (pp. 61-405) ed è condotto verso per verso, prediligendo un procedimento di analisi che, muovendosi dal generale al particolare, con una prima distinzione delle aree semantiche, costituite da sezioni di versi o da coppie di distici, asseconda l’andamento tematico dell’elegia. La disamina, che alterna passaggi più approfonditi ad altri più sintetici o divulgativi, privilegia, pur nell’intento di fornire uno strumento efficacemente valido per una lettura completa del brano, l’aspetto contenutistico del componimento, con un certo riguardo per il riconoscimento dei collegamenti intertestuali, che in questo autore conoscono una molteplicità di declinazioni, dall’autocitazione al riuso di nessi, motivi o stilemi, appartenenti alla tradizione letteraria latina (Catullo, Properzio, Tibullo, Virgilio e, soprattutto, Orazio) e anche greca.
Ovidio riferisce per la prima volta in Tristia II di essere stato condannato alla relegatio per un carmen e un error e difende la sua attività poetica toccando questioni di storia e di critica letteraria: l’individuazione della tematica licenziosa dell’adulterio in tutta la poesia precedente all’Ars, non solo in quella elegiaca, ma anche nella tragedia e nell’epica, fa sperimentare al poeta una sorta di “intertestualità giudiziaria”[[8]]. La presenza di moduli didascalici, la destinazione al princeps e la trattazione di argomenti di ermeneutica e critica letteraria hanno favorito il riconoscimento di parallelismi tra Tristia II e l’Epistula 2. 1 di Orazio.[[9]]
Una novità della proposta interpretativa della Ingleheart risiede nell’individuazione dell’epodo 17 di Orazio quale possibile modello per il secondo libro dei Tristia. Tuttavia, le corrispondenze verbali e tematiche tra i due componimenti[[10]], nelle quali la studiosa ravvisa l’intenzione del poeta di inserire la sua elegia nella tradizione letteraria della palinodia, risultano suggestive, ma poco convincenti. L’ultimo epodo oraziano, con i suoi toni mordaci, in linea con il genere letterario di appartenenza, è piuttosto lontano, quanto ad intenti compositivi, da Tristia II, che, proprio nella sua unicità di libellus rivolto ad Augusto, si delinea come l’estrema occasione offerta al relegatus per ottenere, nella drammaticità della sua mutata condizione di vita, un alleggerimento della pena. Invece, un maggiore approfondimento avrebbe meritato, almeno in sede introduttiva al commento, lo stesso concetto di palinodia, che in Ovidio acquisisce un’inedita complessità, divenendo la chiave interpretativa della sua produzione esilica, soggetta, rispetto a quella giovanile, non ad un totale cambiamento o ad una completa ritrattazione, ma ad una riconversione di stilemi e motivi a fini persuasivi.[[11]]
Tristia II si configura come un’elegia con funzione metaletteraria, capace di far luce sull’intera attività poetica ovidiana: l’intento palinodico è svelato dalle citazioni di versi appartenenti all’incriminata Ars amatoria, dalla quale la poesia dell’esilio eredita il piglio didascalico, volutamente ripreso dal relegatus nel suo desiderio di autodifesa. Resta al lettore il delicato compito di destreggiarsi tra le pieghe di quella “allusivita\ ambivalente”[[12]], in base alla quale il brano si arricchisce di un duplice livello interpretativo, che presuppone un doppio destinatario: il princeps e il pubblico fedele di Ovidio, capace di cogliere le fini ambiguità di un componimento mascherato da panegirico. In tal senso, l’approccio critico della Ingleheart ha il pregio di fornire, pur nella tendenza alla ricerca del particolare ironico, tipica di molti studi anglosassoni, una lettura bilanciata del testo, del quale rispetta la poliedricità dei punti di vista, con l’ausilio di numerose indicazioni bibliografiche opportunamente discusse e senza necessariamente privilegiare un unico esito interpretativo. L’elegia, testimonianza dell’irrimediabile incrinatura nei rapporti tra intellettuale e potere verso la fine del principato augusteo, risulta indagata anche nella sua valenza di fornire significative informazioni di carattere storico- sociologico.
Chiudono il volume la Bibliography (pp. 406-32), un utile Index of Latin and Greek (pp. 433-38) con l’indicazione dei termini o dei nessi latini e greci notevoli analizzati nel corso del commento, un Index locorum (pp. 439-41) e un General Index (pp. 442-48).
NOTES
[[1]] La studiosa è autrice di molti contributi sulla poesia ovidiana dell’esilio. In particolare, su Tristia II, cfr.: ‘What the Poet Saw: Ovid, the error and the theme of sight in Tristia 2’, MD 56 (2006) 63-86; ‘Burning Manuscripts: the literary apologia in Ovid's Tristia 2 and Vladimir Nabokov's On a Book Entitled Lolita’, CML 26 (2006) 79-109; ‘Et mea sunt populo saltata poemata saepe (Tristia 2. 519). Ovid and the pantomime’, in E. Hall and M-R. Wyles (edd.), New Directions in Ancient Pantomime (Oxford 2008) 198-217; ‘Writing to the Emperor: Horace's Presence in Ovid, Tristia 2’, in L. Houghton and M. Wyke (edd.), Perceptions of Horace: A Roman Poet and his Readers (Cambridge 2009) 123-39.
[[2]] I. Ciccarelli, Commento al II libro dei Tristia di Ovidio (Bari 2003).
[[3]] S. G. Owen, P. Ovidii Nasonis Tristium Liber Secundus (Oxford 1924) 48-54.
[[4]] Sempre valido è lo studio di G. Focardi, ‘Difesa, Preghiera, Ironia nel II libro dei Tristia di Ovidio’, SIFC 47 (1975) 86-129.
[[5]] J. B. Hall, Ovidius: Tristia (Stuttgart-Leipzig 1995).
[[6]] S. G. Owen, P. Ovidi Nasonis Tristium Libri V (Oxford 1889).
[[7]] G. Luck, Tristia Band I (Heidelberg 1967).
[[8]] Cfr. A. Barchiesi, ‘Insegnare ad Augusto: Orazio, Epistole 2.1 e Ovidio, Tristia II’, MD 31 (1993) 149-84, che usa questa definizione riferendosi agli echi tibulliani contenuti in trist. II, 446-64 (p. 172 del contributo).
[[9]] Cfr., soprattutto, lo studio del Barchiesi, citato alla nota [8] e opportunamente considerato dalla Ingleheart.
[[10]] Ingleheart (pp. 10-12) basa le sue considerazioni sul fatto che entrambi i testi sono rivolti da un poeta supplex (Orazio e Ovidio) ad un personaggio potente e inflessibile (Canidia e Augusto) nel tentativo di placarne l’ira, dovuta ai loro precedenti versi.
[[11]] La stessa poesia che aveva provocato la sua condanna, finirà per salvare il poeta: qui risiede il significato del ricorso al mito di Telefo presente ai vv. 19 ss. del componimento. Per il concetto di palinodia nella poesia ovidiana dell’esilio, accanto al contributo di M. Labate, ‘Elegia triste ed elegia lieta. Un caso di riconversione letteraria’, MD 19 (1987) 91-129 (una nuova redazione ritoccata in alcuni punti è ‘Precettistica elegiaca d’amore e no’, in G. Catanzaro-F. Cantucci (edd.), Tredici secoli di elegia latina. Atti del convegno internazionale. Assisi, 22-24 aprile 1988, Assisi 1989, 63-91), meritavano di essere considerati almeno gli studi di F. Lechi, ‘La palinodia del poeta elegiaco: i carmi ovidiani dell’esilio’, A&R n. s. XXIII (1978) 1-22 e Introduzione a Ovidio, Tristezze (Milano 1993) 5-44.
[[12]] Cfr. L. Galasso, ‘Recensione a Williams G. D., Banished Voices. Readings in Ovid's Exile Poetry’, Gnomon 71 (1999) 122.